L’amore ai tempi della Milizia

Storia originale

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  1. Park Moo-rang
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    L’amore ai tempi della Milizia


    Caro diario, quest’oggi riprendo a vergare le tue pagine con oltre un giorno di ritardo.
    No, non si tratta delle consuete discussioni con i miei studenti all’Accademia del Ministero. Quelle, come tutto l’ordinario e il quotidiano, col trascorrer dei giorni divengon tediose a dirsi non meno che a farsi, per quanto significative. No, questa volta le mie non saranno brevi annotazioni episodiche e frammentarie; intendo render noto ogni dettaglio del mio ultimo successo, perché un’esperienza tanto piacevole ed insolita, così rapida e fuggente nella vita, merita d’esser ricapitolata lentamente, assaporandone ogni singolo istante.
    Procediamo con ordine. La scaturigine dell’atipico cimento vittoriosamente esperito nella giornata di ieri ci porta molto lontano nel tempo, assai prima dei fatti di cui voglio parlare. Trattasi di circostanze a tutti note; ma repetita iuvant, come dicevano i latini, specie in un caso come questo.
    Quindici anni fa all’incirca, il nostro paese stava ancora attraversando uno dei periodi più oscuri e negativi della sua storia. A centocinquant’anni dall’unità, quale umiliazione per la nostra terra natia venir nuovamente calpestata dal tallone di ferro dello straniero! Allora i pochi che rimasero fedeli alla nostra bandiera, per evadere la silenziosa censura imperante, non potevano che esprimere il loro sordo lamento a mezzo dell’arte poetica, un lamento che, nei versi del grande Francesco Alarico della Scala, si fece grido di battaglia:
    O Patria nostra,
    lunga un tiro di schioppo
    allorché si mostra,
    sotto le fronde del pioppo

    rimirandoti vo’ speculando sulla tua sorte
    giacché, ben so, l’America vuol la tua morte,
    e tra le sue grinfie ti tien l’aquila atlantica,
    come l’Austria dapprima, o madre autentica.

    A Dante secoli or sono
    desti i nobili natali,
    eppur non rispondi a tono

    a questi alleati fatali.
    Dove il tempo ha lasciato l’ardor tuo antico,
    allorquando trattasi di fronteggiar lo inimico?

    Sebbene taluni animi oppressi colsero il messaggio del Vate, la maggioranza, inebriata dallo spirito dionisiaco, rimase indifferente al richiamo della Patria… Ciò è inconcepibile! – esclamerebbe chiunque oggigiorno. Ma allora la situazione era alquanto diversa. Insieme con l’occupazione militare, il nemico straniero aveva fatto ricorso a tutta la potenza dei suoi arsenali spirituali per istupidire le nostre genti; dove non erano arrivati i cannoni – a spezzare e rammollire lo spirito di resistenza – giunsero la radio, la televisione, la rete informatica. Come accade in America da quasi un secolo, la nostra cultura fu ridotta in uno stato di marasma e decomposizione. Ciascuno se ne infischiava delle sorti del paese, della morale e della giustizia. La mefitica esalazione che i venti d’oltreoceano avevano condotto fin sul suolo italico aveva precipitato il nostro paese nel baratro dell’edonismo e dell’individualismo, della meschina ricerca del godimento personale, il quale veniva perlopiù declinato nelle forme più triviali.
    E il gregge di debosciati che nulla fece per rimediare a un simile stato di cose ed, anzi, se ne contentava con gusto perverso, giustificava la propria apostasia – ci credereste? – ricorrendo alla «libertà»! O, libertà, quali spergiuri non furon pronunciati col tuo nome sulle labbra!… Questa elegante parola, tanto illustre quanto ingannevole, designava, nel gergo di chi aveva svenduto la Patria per un pugno di dollari, l’impunità di cui godeva qualsiasi azione immorale e criminale. Questo Inferno materializzatosi entro i nostri confini sembrava dover durare in eterno, come una sorta di perpetua stagnazione della vita sociale in ogni suo aspetto.
    Ma il vento della storia riprese a soffiare per il verso giusto, ovverosia nel verso a noi favorevole. E fu così che insorgemmo contro lo status quo. Son passati meno di vent’anni, eppure di quel vecchio mondo non resta che un lontano ricordo nei cuori del popolo. I mercenari che prima infestavano le strade sono stati scacciati dalla nostra terra, assieme a tutto il marcio che avevano portato con sé. Ora nessuno può impugnare le armi contro di noi. Tuttavia, ciò è ben lontano dall’essere sufficiente. È noto che le idee sono più potenti delle armi. Noi non permettiamo ai nostri nemici di imbracciare delle armi, perché mai dovremmo consentir loro di possedere delle idee?
    Le confuse concezioni che furono alla base delle piaghe del vecchio mondo sono state esse stesse ricacciate negli abissi profondi; eppure, di tanto in tanto, esse risorgono. Sintomo di schizofrenia dal decorso lento – arguiscono i professori dell’Istituto di psicologia di Milano. Personalmente sono convinto che non si tratti solo di instabilità mentale. Se ancor oggi si trova chi è disposto a distillare veleno spirituale da propinare a se stesso e agli altri, ciò è dovuto anzitutto al fatto che il retroterra filosofico di matrice cartesiana che sottende all’erroneo concetto di «libertà» proprio degli individui fuorviati è parimenti il più vicino al sentire comune. A conclusioni analoghe dev’esser giunto il gestore di Radio Free Italy, il quale, nel suo proclama della settimana scorsa, era pronto a dichiarare che le produzioni culturali decadenti «esprimono tendenze intrinsecamente presenti nell’animo umano»; perciò metterle al bando, come la nostra legge ha giustamente deliberato, significherebbe «censurare una parte dell’essere umano». Ed è proprio quello che intendiamo fare! Noi siamo persone spietate non meno che giuste; se dentro ciascuno di noi si annida un criminale, nessun problema: deporteremo anche lui! Come le erbacce vengono recise allorché deturpano l’estetica del giardino, così la nostra scure si abbatterà sul serpente della turpitudine morale ogniqualvolta esso risolleverà la testa.
    Come mai una così lunga digressione? Perché ad essa si ricollega strettamente quanto sono in procinto di narrare. Difatti, il nodo che dovetti districare nei giorni scorsi riguardava da vicino precisamente la penetrazione della cultura decadente nella nostra società. Un cittadino già in passato distintosi per la sua vigilanza – ho avuto occasione di assegnargli ben due medaglie per i suoi servigi! – mi aveva messo al corrente dell’esistenza di un gruppetto, invero piuttosto nutrito, di giovani perdigiorno che avevan pensato di rompere la noia quotidiana organizzando una certa qual sorta di «discoteca» clandestina nel seminterrato dell’abitazione di un funzionario degli approvigionamenti, profumatamente pagato per la sua «discrezione». «Discoteca», negli anni bui dell’occupazione straniera, era il nome di taluni locali ove le frange più degradate della gioventù si dedicavano alle libagioni ed all’assunzione di sostanze lesive alla salute psichica, nonché alle forme di divertimento più basse e grossolane.
    Provate a biasimare coloro che oggi si fregiano dell’appellativo di dissidenti per questo loro tentativo di trascinarci nuovamente verso le tenebre, e costoro vi risponderanno con l’abituale e gesuitico richiamo alla «libertà». Mai fidarsi di un dissidente: un dissidente non crede neanche a se stesso. Né il ricorso a qualche consunta parola d’ordine né il riferimento a qualsivoglia principio astratto potranno occultare la vera, prosaica ragione del suo comportamento: «comme ça gratte, comme ça gratte!».
    Mi sono distratto. Torniamo alla cronaca degli accadimenti di ieri. Le voci sui piani per organizzare l’evento clandestino erano giunte sino all’orecchio di una persona onesta e ligia al proprio dovere civico. Ci era noto ogni particolare del progetto: quante persone avrebbero partecipato, dove si sarebbero radunate, quale musica avrebbero ascoltato, ecc. Avremmo potuto scatenare un’azione preventiva, bloccando tutti gli individui coinvolti prima ancora che il fatto avesse luogo. Ma ordinai di temporeggiare: era meglio cogliere i debosciati sul fatto; la stampa avrebbe parlato più a lungo e con toni maggiormente elogiativi della nostra impresa, e saremmo entrati in possesso di una superiore quantità di prove da presentare dinanzi al Tribunale.
    Così attendemmo, fino a quando la «festa» non ebbe inizio. Accerchiammo l’edificio incriminato con la 4ª compagnia. Quegli scalzacani si erano organizzati a dovere: le finestre del seminterrato erano state opportunamente coperte, sicché all’interno si ricreasse l’ambiente notturno tanto caro all’anima dei decadenti e nessuno, dall’esterno, potesse accorgersi di quanto stava accadendo là dentro. Lo stesso dicasi per la «copertura sonora»: erano stati approntati appositi sistemi audioisolanti per restare nella più totale segretezza. E vi sarebbero rimasti, se la nostra unità non fosse intervenuta. Dapprima inviai un singolo commilitone in borghese, il quale riuscì facilmente a raggirare i guardiani, ormai ubriachi e distratti, penetrando nell’edificio. Questi si mosse con circospezione, portandosi fin dietro l’impianto stereo da cui fuoriuscivano rumori più simili al trapano del dentista che alla vera musica. Staccò la spina, e mise così a tacere tutto quel caotico baccano. Gli sciagurati si guardarono attorno disorientati per qualche attimo, ma compresero subito quanto stava per accadere, allorquando giunse alle loro orecchie una musica assai più umana: erano le note, marziali e sublimi ad un tempo, della Marcia della Milizia, composta da F. Dimiziani, che provenivano dalla nostra apparecchiatura acustica. Un piccolo scherzetto per i nostri esterofili, escogitato dalla mia mente diabolica.
    I nostri due plotoni d’avanguardia forzarono le porte e in un attimo feci il mio ingresso nella stanza. Alcuni dei bersagli erano a terra prima ancora di esser raggiunti dai nostri proiettili: quegli ubriaconi non potevano opporre alcuna resistenza degna di nota. Un solo temerario tentò di reagire, sferrandomi un pugno. Ma anche costui era semiubriaco: non mi fu difficile parare il colpo, contorcergli il braccio e scaraventarlo a terra. Mentre i soldati affluivano nella sala ed accorrevano a immobilizzare ogni malcapitato che capitasse loro a tiro, io camminavo verso il centro della sala. Là stava in piedi, parzialmente sobrio, Igor Farinelli, colui il quale, stando alle informazioni forniteci, doveva essere l’organizzatore dell’evento, già noto alla Milizia come contrabbandiere di veleni di varia natura. Stamane ho chiesto ed ottenuto dal Tribunale l’incarico di rappresentare la pubblica accusa nel suo processo, che si svolgerà fra qualche giorno. Sarà divertente…
    Mi stavo avvicinando al Farinelli, e fu allora che il mio sguardo incrociò un’altra figura, accanto a quella di costui, una figura dai lineamenti talmente differenti da quelli che avevo sinora visto ed intravisto che inizialmente credetti di avere un’allucinazione, dovuta all’odore di alcol che pervadeva l’insalubre atmosfera. Aguzzai la vista e l’immagine acquisì maggior nitidezza: trattavasi di una figura femminile, dai lineamenti sinuosi e slanciati, avvolta in un abitino da cocktail color fucsia, che lasciava scoperte le spalle ed il petto ornato da una collana. La luce si rifletteva sulla sua chioma dorata. I suoi occhi azzurri mi fissavano; io la fissavo, come ipnotizzato. Quali sorprese ti riserva la vita! Dinanzi ai miei occhi si stagliava la figura di una ragazza perfettamente rispondente ai miei gusti estetici, e di fianco a lei un teppista della peggior risma. Com’era possibile che due persone tanto diverse – una fanciulla che emanava un dolce profumo di pesca ed un untermensch dalla cui bocca non uscivano che miasmi alcolici – si ritrovassero in quel medesimo, squallido ambiente? Per un attimo la mia mente fu affollata dai più sinistri presentimenti: avevo trovato la ragazza dei miei sogni, ma probabilmente stava dalla parte sbagliata della barricata. A questo pensiero non potei resistere oltre, e proruppi: «No, non può essere così!», assestando un calcio ad uno sventurato fuggiasco. Ripresi con forza il passo, in direzione dei due, al centro della stanza, mentre ordinavo ai miei uomini di non torcere un capello alla ragazza. Intanto lei seguitava a fissarmi, lasciando trasparire la paura che tormentava il suo animo. Mi sforzai dunque di attenuare i lineamenti severi e adirati del mio volto; schiusi il pugno e protesi la mano verso di lei, rivolgendole alcune parole quasi affettuose: «Che cosa ci fa una creatura così splendida in mezzo a questi barbari?».
    Non poté rispondermi: ne fu impedita dall’ultimo, velleitario tentativo di resistenza da parte del Farinelli, che cercò di intimorirmi col grave suono della sua voce: «Non t’azzardare a…». Non lo lasciai finire; gli puntai la pistola d’ordinanza al petto, terminando la frase per lui: «Non t’azzardare a proferir altre parole, miserabile». Presi a fustigarlo verbalmente: «Igor Farinelli, già condannato vari mesi or sono per spaccio di sostanze allucinogene. Ed ora infatuato della più scadente musica d’oltreoceano. Perché tutto questo?».
    «Perché in America almeno c’è libertà!» (Ecco, che vi avevo detto?).
    «Già, c’è libertà; purtroppo c’è libertà…», soggiunsi con piglio sferzante mentre gli uomini del terzo plotone lo ammanettavano, e mi congedai da lui: «Ci vediamo in sala interrogatori». Ora che i soldati stavano trascinando via pesci grossi e piccoli fra i responsabili di quel ginepraio, restava soltanto la ragazza. La riottosità del Farinelli mi aveva aiutato ad uscire dallo stato di estasi in cui ero precipitato osservandola; dovevo mantenere la concentrazione e la razionalità, dovevo agire in fretta prima di esserne nuovamente in balìa. Mi volsi verso di lei e protesi nuovamente la mano, fino a sfiorarle delicatamente il mento e i capelli, dicendo: «Io e te, invece, ci vediamo nella mia villa. Ti attendo questo pomeriggio in via Emilio Sereni, al numero 9. Non mancare». Come feci ad esprimermi così spontaneamente è tuttora un mistero, e d’altronde, una volta voltatomi, fui subito assalito da mille dubbi.
    Ebbi appena la forza di ordinare ai miei uomini: «Ragazzi, qui abbiamo finito. Ora possiamo portare questa teppaglia nel posto che merita». Ma subito il sergente Trotta mi obiettò, additando la ragazza: «E quella la lasciamo lì, senza arrestarla?».
    «Noi – presi a dire – non siamo degli spietati aguzzini come i nostri diffamatori all’estero sogliono raffigurarci. Se qualcuno è in condizione di redimersi in assenza di coazione, è giusto accordagli tale possibilità. Mi occuperò personalmente del caso e ho già preso tutte le misure necessarie alla sua risoluzione».
    Si chiuse così l’operazione di ieri mattina: era stata un successo, con una quarantina di arresti, nessun transfuga e una mole abnorme di prove per il futuro processo. Unica nota negativa: la mancata rintracciabilità dei complici di Farinelli, dei suoi fornitori di merce illegale e della provenienza del denaro utilizzato per corrompere il gestore dello stabile. Certo, in linea di principio il meccanismo è noto: i nostri nemici all’estero, intenzionati come sono a disgregare la coesione della nostra società, non perdono occasione per fornire la «copertura finanziaria» alle manovre per inoculare nel sangue del nostro popolo i germi dell’immoralità e dell’edonismo. Si trattava di individuare i precisi responsabili dell’affare, i foraggiatori dei servizi segreti stranieri annidatisi nelle nostre fila. Tuttavia, ben altre preoccupazioni affollavano i miei pensieri. Non potevo fare a meno di ripensare alla fanciulla che avevo invitato presso di me. Perché mai avrebbe dovuto venire da uno sconosciuto che poche ore prima aveva arrestato tutti i suoi amici? Ero tormentato dal serio timore di aver sbagliato tutto con lei, e di aver parimenti fatto fallire l’operazione della Milizia, omettendo di arrestarla o di tenerla sotto controllo. Di più: quella provata poco fa era stata un’emozione inopinata; lo ammetto, fenomeni del genere non sono più i flagelli che furono durante il periodo dell’occupazione, ma conservano intatta la loro pericolosità sul piano morale e psicologico.
    Assorto da questi pensieri, pranzai miseramente e trascurai perfino di cambiarmi. Poco male: mi sarei presentato alla mia ospite nella maniera più elegante, con indosso divisa e medaglie. Dovevo tuttavia smetterla di rimuginare e impiegare il tempo in modo produttivo, preparandomi per il processo prossimo venturo. Presi dallo scaffale il volume sulla teoria delle prove giudiziarie e mi sedetti alla scrivania, cominciando a sfogliarlo, per rivedere le norme procedurali e prepararmi a far tribolare Farinelli come merita. Lo stile limpido, scientifico e possente del vecchio Andrej Januar’evič catturò la mia attenzione e mi fu d’aiuto nell’uscire dal vicolo cieco di quelle viziose riflessioni.
    Trascorsero i minuti e le ore, e d’improvviso udii suonare il citofono. Sportomi dalla finestra, vidi che era davvero lei. Era giunto il momento decisivo: dovevo agire al massimo delle mie facoltà, per la Patria e per me stesso. Prima d’allora avevo sgominato altri nuclei di esterofili degenerati, avevo seminato il terrore nelle fila nemiche durante la guerra di liberazione: non potevo tirarmi indietro, pena il disonore.
    Le aprii la porta. Neppure lei era vestita diversamente da come l’avevo vista ore prima: il medesimo vestitino da cocktail fucsia, la stessa collana e i medesimi orecchini. Mi piaceva la sua estetica, per cui mi feci avanti con buoni auspici, baciandole la mano. Questo primordiale idillio fu ben presto smorzato dalle sue prime, laconiche parole: «Perché mi ha fatta venir fin qui?». Dal suo tono di voce traspariva un senso di ostilità, ma altresì di insofferenza e di debolezza. Dal canto mio, non avevo intenzione di cedere, e decisi di intensificare le pressioni. La tenni comunque per mano, portandola sin sulla terrazza, ove ci sedemmo al tavolo; di contro al mio intento iniziale, mi portai anche il taccuino d’indagine.
    Risposi finalmente alla sua domanda: «Voglio sapere come mai una fanciulla così gradevole nell’aspetto e nel portamento ha incrociato il mio sguardo proprio in un luogo tanto irriguardoso per le nostre leggi quanto poco confacente a una presenza come la sua, signorina…». Ancora mi era ignoto il suo nome!
    «Natalia, mi chiamo Natalia. Lei, invece?».
    «Stefano Lanfranchi, tenente della Milizia e candidato in scienze filosofiche presso l’Accademia del Ministero degli interni».
    «Perbacco, non sapevo della presenza di persone così dotte fra voi despoti».
    «Vede, il nostro è un dispotismo illuminato; abbiamo trionfato sugli invasori stranieri anche grazie alla nostra superiorità spirituale, alla potenza della cultura del paese che diede i natali a Dante, a Leonardo, a Galileo, a Francesco Alarico della Scala».
    «Coloro che hai citato si rivolterebbero nella tomba al pensiero di come vengono sfruttati oggi, per torturare chi, come me, ha l’unica colpa di ascoltare musica a voi sgradita».
    «Non faccia di tutta l’erba un fascio. L’ultimo è ancora in vita e, col nostro unanime consenso, guida la Patria verso le più alte vette del progresso. Ma torniamo a lei: come mai ha esercitato la sua libertà in modo tanto erroneo?».
    «Chi è lei per dire se il mio comportamento è giusto o sbagliato?».
    «Sono uno che ha preso visione delle dichiarazioni dei cittadini Rizzo, Guadagno, Spagnoli e altri, nonché del materiale rinvenuto nello stabile di via Aitna 33. Corruzione di un impiegato statale, contrabbando di sostanze allucinogene, propaganda cosmopolita, teppismo, resistenza a pubblico ufficiale, eccetera: ce n’è abbastanza per un processo. Come vede, non si tratta solo dei suoi discutibili gusti musicali…».
    «I tre che ha citato sono rivali di Igor. Le dichiarazioni da loro rese in istruttoria sul suo conto sono inattendibili ed incompatibili con la quantità di materiale sequestrato, inferiore a quanto da loro asserito».
    «Lei è una ragazza estremamente intelligente, e perciò mi congratulo con lei. Vorrà dire che i fra i capi d’imputazione dei cittadini suddetti figurerà anche quello di falsa testimonianza, mentre nei successivi interrogatori intensificheremo le pressioni su di loro. Lei, che dispone di una così profonda conoscenza dell’inventario posto sotto sequestro e dei rapporti interpersonali fra gli arrestati, ci aiuterà invece a scovare i membri della rete logistica che si cela dietro il cittadino Farinelli…». Udendo queste parole Natalia fece una smorfia di disgusto e disse, con un tono a metà tra il disincantato e l’indignato: «Sei davvero un tiranno coi fiocchi! Sei riuscito a metterci gli uni contro gli altri, a spingerci ad accusarci a vicenda e a cooperare ai tuoi scopi senza che ce ne rendessimo conto. Adesso capisco perché negli ambienti del dissenso si dice che la lotta contro di te è senza speranza». In men che non si dica era passata a darmi del tu: buon segno!
    Proseguii: «Suvvia, mi stai sopravvalutando. Io sono soltanto un semplice conoscitore della necessità, un tale che sa parecchie cose e agisce di conseguenza. L’antagonismo fra Farinelli e una parte dei suoi accoliti non è una mia invenzione: ne hai ammesso tu stessa l’esistenza poc’anzi. Come vedi, io mi appoggio soltanto alla realtà, nella quale le libere volontà individualistiche non possono che confliggere, come dimostrato anche dalle losche trame del caro Farinelli contro te medesima…».
    «Conosco già tutto. Igor mi ha raggirata; il suo unico scopo era la violenza carnale».
    «E allora perché ti ostini a difenderlo?».
    «Perché è l’unica persona sulla quale posso ancora contare. Ora che l’avete sbattuto dietro le sbarre, con chi andrò a vivere? I miei famigliari sono morti durante la guerra, non posseggo neppure i documenti di cittadinanza, sono perduta…». L’ostilità stava lentamente svanendo, per lasciar spazio alla più cupa disperazione. Sulle guance di Natalia non scorrevano ancora rivoli di lacrime, per il momento…
    Decisi di cambiare tattica: soltanto un sadico, un degenerato avrebbe scelto di infierire ulteriormente su quella creatura con l’interrogatorio. Mi alzai dalla sedia e le venni d’appresso. Postomi alle sue spalle, iniziai a carezzarle delicatamente i capelli, e poi il collo, e poi il mento. Natalia inclinava il capo e mi fissava con sguardo triste e assorto. «Il tuo interlocutore – le dissi – non è soltanto un agente della Milizia, intenzionato a investigare sui fatti di stamane, ma è altresì un uomo che desidera aiutarti. Parlami di te».
    «Mi sento terribilmente sola. Non ho più nessuno su cui fare affidamento. Sono stata tradita dalle persone in cui riponevo la mia fiducia, io stessa ho tradito chi si fidava di me. Perché tutto questo?! Io volevo solo essere libera, potermi divertire un po’ e rompere la monotonia. E invece, mi ritrovo più isolata di quanto non fossi prima».
    «Vedo che ora intendi anche tu che l’atomizzazione è non una circostanza artificialmente creata dai nostri organi legali per mettere in difficoltà i dissidenti, bensì uno stato di cose connaturato alla condizione di questi ultimi. Rincorrendo la chimera della “libertà”, di una innaturale indipendenza dell’individuo dal contesto in cui si trova ad operare, di un’azione svincolata dalla realtà concreta, non si approda che al caos, alla completa soggezione alle contingenze cui, a parole, si nega ogni influenza. L’autentico concetto di libertà è tutt’altro…».
    «Eppure è proprio questa l’idea che sento spontaneamente dentro di me!».
    «Trattasi d’illusione. Di primo acchito, senza un’indagine profonda sulla realtà, a chiunque verrebbe da credere che è il Sole a girare attorno alla Terra. Non una fantomatica indipendenza dalle cause reali, bensì l’azione conforme alla necessità, la conoscenza di questa necessità ed il suo uso a proprio vantaggio – tale è la sostanza dell’autentica libertà. Tu credi di esser venuta qui di tua spontanea volontà e di agire liberamente, laddove io eseguo degli ordini. Eppure sono riuscito a farti confessare ciò che volevo. Chi tra noi due è davvero libero?».
    «Basta, mi arrendo. Non riesco più a sostenere tutto questo. Non posso continuare a lottare contro uno Stato onnipotente. Ho sperimentato sulla mia pelle la libertà com’è intesa dai dissidenti, e prego il cielo di non avervi più nulla a che fare. I complici di Igor sono Luca Zero, Simone Fontana ed Elio Bianchi».
    «Perfetto. Ora raggiungo i miei uomini e vado a catturarli».
    «No, non farlo, ti scongiuro! Quei tre ti stanno tendendo un agguato in Corso Nasini».
    «Va bene. Contatterò Trotta affinché li vada a stanare lui. Questo sì ch’è un bel colpo per il processo che verrà!».
    «Ora sai tutto quello che volevi sapere, ed io sono allo stremo delle forze. Fai di me quello che riterrai opportuno. Attenderò i tuoi uomini in Via Del Monte, nella casa di Igor: dove potrei andare altrimenti? Ormai sono finita».
    Si alzò, in procinto di andarsene. Dovevo fermarla. Agii d’impeto: le cinsi il fianco con un braccio e la trassi verso di me. Schiuse gli occhi sofferenti e disse, con flebile voce: «Che cosa significa questo?».
    «Non sei affatto finita, Natalia. Nessuno ti arresterà: ora non sei più una criminale, bensì una collaboratrice della Milizia. Ci hai aiutati a sventare un attentato e perciò ti siamo grati».
    «Che cosa cambierebbe? La mia esistenza è ormai priva di scopo. Tutti mi hanno tradita e imbrogliata, tutti! La mia sorte sarebbe stata diversa se avessi avuto al mio fianco una persona affidabile, un membro del Partito, ma il destino aveva ben altro in serbo per me».
    «Io sono iscritto al Partito da sei lunghi anni, e non permetterò che una ragazza di tale avvenenza finisca in modo tanto mesto e indesiderabile. Natalia, guardati attorno: questa è la tua nuova casa. Io sono la tua nuova famiglia. La solitudine e la malinconia non saranno che il tetro ricordo di un lontano passato, di un passato che non ritornerà! D’ora in poi ogni precedente tradimento sarà sommerso nel Lete: resterò al tuo fianco qualunque cosa accada, ti sarò vicino fino alla fine! “Tutto è uno”, recita il motto del nostro Partito. Tu hai bisogno di me, di qualcuno che ti porti la pace e la stabilità; io ho bisogno di te, di una meravigliosa creatura che scelga di trascorrer la vita con me. Non possiamo tirarci indietro: anche noi siamo tutt’uno. Io ti amo, Natalia, mia adorata».
    Percepivo chiaramente il fremito che scosse le sue membra mentre pronunciavo tali parole. Perciò decisi di rompere ogni indugio. Sciolsi il nodo gordiano stringendola fra le mie braccia e baciandola. Ebbe dapprima uno spontaneo sussulto di repulsione, ma non le fu sufficiente a districarsi dalla mia presa. Cessò poi ogni resistenza ed, anzi, si fece strada una spinta in senso contrario: anche Natalia mi stringeva a sé, in un abbraccio sempre più intenso e appassionato.
    Trascorsero alcuni istanti, indi le nostre labbra si separarono e i suoi occhi si schiusero. Con tono di voce mutato, irriconoscibile proclamò: «E pensare che mi avevano anche avvisata! Mi avevano avvertita che tu mi avresti conquistata con inesorabile necessità, con la stessa foga con la quale strappasti una ad una le nostre città dalle grinfie del nemico, che mi avresti assoggettata al tuo volere senza ch’io potessi fare alcunché per oppormi. Credevo che esagerassero, ma ora l’esperienza mi ha imperiosamente dimostrato che stavo dalla parte del torto. Ed è proprio per questo che mi piaci: avvinta fra le tue braccia so di essere al sicuro, di trovarmi al riparo dalle più violente tempeste della vita, incluse quelle da cui rischio di venir travolta in ragione dei miei passi falsi. Sono tua».
    Dopo queste parole le scultoree membra di Natalia riacquistarono vigore e l’effusione riprese, con rinnovata passione, per durare fino a notte inoltrata.
    Ancora una volta la vita ha confermato di essere il migliore fra i drammaturghi. Questo dialogo, dalla potenza esemplare, quale ci si potrebbe attendere da un romanzo di F.A. della Scala, esprime l’intima essenza della nostra nostra Weltanschauung applicata alla morale e al sentimento; e, trattandosi di un fatto realmente vissuto, dimostra una volta di più che la nostra è la società del reale umanesimo, che i nostri princìpi non son rimasti sulla carta e che, all’opposto, la vita del nostro popolo n’è l’incarnazione diretta. Serberò in eterno il ricordo degli accadimenti della giornata di ieri; ma ho voluto ugualmente scolpirli negli annali della mia vita, dedicandovi così tante pagine di diario, quale imperituro monito per l’avvenire. Mediterò sull’eventualità di farle pubblicare, verosimilmente a puntate, sulle colonne del Monitore dei costumi, oppure in opuscolo. Tale esperienza va assolutamente generalizzata: i casi analoghi, nelle fila del dissenso, sono innumeri. L’ha altresì compreso la divina Natalia, la quale ha espresso il desiderio di iscriversi all’Accademia del Ministero, non appena torneremo dalla vacanza in Versilia che le ho promesso.
    Il succedersi ininterrotto dei giorni e dei mesi, l’impetuoso sviluppo della nostra Patria, l’esperienza della vita mi ricordano ad ogni piè sospinto quanto falsa e menzognera sia l’immagine del nostro sistema sociale che la stampa estera propina ai suoi lettori. Siamo raffigurati come persone senz’anima, devote unicamente agli interessi dello Stato e prive di qualsivoglia vita privata o gratificazione personale. Al contrario, come scrisse il Generale, la nostra dottrina «esige che si mettano in primo piano gli interessi dello Stato e della società, nel quadro dei quali ciascuno realizza gli interessi propri». Questa è l’etica della nostra società. Le menti limitate dei calunniatori stranieri non sono in grado di comprenderla e, perciò, sono costrette a distorcerne l’immagine nella maniera più rozza e banale; costoro non si rendon conto che, in tal guisa, non possono sollevarsi dalla loro condizione di individui spiritualmente eunuchi, dal loro congenito nichilismo, ma soltanto certificare una volta di più la propria cronica impotenza. L’identità dell’interesse individuale e di quello collettivo è il sale della vita.
    «Permetteteci di eccepire!» – esclameranno i nostri dissidenti.
    «Permetteteci per questo di mettervi al muro!» – replicherà loro la Milizia.
    23 aprile 2038
     
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