Greyson

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    Greyson

    ~Pif



    Le ultime foglie d’autunno stavano definitivamente cadendo lasciando i rami degli alberi, rivolti verso il cielo come braccia in cerca d’aiuto, spogli, dinnanzi ad un gelido periodo che si avvicinava e che solo gli abitanti del Minnesota si apprestavano a conoscere. Ciò che in realtà quel mondo naturale stava compiendo, non era il triste decesso nella solitudine del rigido inverno, che da li a poco sarebbe arrivato , ma bensì una rinascita che avrebbe reso nuovamente splendenti le foglie in primavera e avrebbe donato quella spensieratezza naturale del mondo non-umano; come un ricambio generazionale.
    L’aria, fresca, che inspiravo dai polmoni, mi rigenerava; come a volermi ricordare che anche io facevo parte di quel processo naturale, anche l’uomo era parte della natura, figlio di una madre troppo spesso maligna e ingannatrice.
    Il vento mi carezzava il viso, gelido e screpolato. Il sole si celava dietro grigie nubi che dall’alto vegliavano la cittadina di Rochester. Nessun raggio aveva colpito i tetti delle case; le grondaie erano colme di foglie che ogni tanto cadevano per la sovrabbondanza, posandosi, con estrema grazia e spostate come piume da un filo di vento, negli stretti vialetti di pietra bianca.
    Il ricorrente rumore delle raffiche echeggiava nell’aria, e le foglie, cieche, si muovevano strusciando sul terreno fangoso come in una disperata ricerca di una meta. Ora una folata di vento più forte fece scontrare i rami che si dimenavano tra loro quasi in collera.
    Quella stessa brezza effondeva il profumo dolce e armonioso delle rose che confortavano il mio animo svigorito fino nel profondo.
    Nell’aulente prato i giovani uccelletti cinguettavano dai freddi nidi, alternando momenti di silenzio a pigolii intensi e confusi, quasi a voler comunicare qualcosa.
    Le alte vette, che scorgevo da lontano, facevano da sfondo all’incomparabile paesaggio che mi si presentava dinnanzi, con dolci spolverate di coltre bianca poste al culmine delle irregolari creste sfocate.

    Posai la mano destra sulla pietra nera, quasi rabbrividì. Nello stesso modo in cui un cieco legge il Braille, iniziai a spostare da sinistra a destra la mano. La scritta, in rilievo, era color bronzo con le lettere leggermente stacca l’una dall’altra. Ora un malinconico sorriso si posava sul mio volto.

    “Signor Greyson…”
    “Chi è il signor Greyson?” domandò dubbioso Stephen.

    Un ricordo, un’immagine così vicina ma al contempo inafferrabile tormentava la mia mente. Ma perché struggersi per qualcosa di così naturale? Perché non sorridere ripensando alla bellezza della vita?
    Fu in quel momento, con un cinico paesaggio che ci osservava insensibile del tempo che scorreva e della vita che si trasformava, che i ricordi si mescolarono come onde in un mare in tempesta che non lasciano scampo nemmeno ai più coraggiosi ma sfortunati navigatori dei mari del nord; fu in quel momento che tutto ad un tratto rivissi il periodo più intenso della mia vita.





    Edited by ~Pif - 5/5/2015, 23:18
     
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    Settembre 1984

    Un intenso via vai di scolari si intrecciava tra il cortile della High & Middle School of Rochester. Molti genitori stavano dando le ultime raccomandazioni, altri aspettavano impazienti in macchina l’apertura del grande portone verde, altri ancora si erano già avviati lasciando i figli a qualche casalinga che cortesemente avrebbe aspettato l’orario d’apertura con il proprio figlio e con “l’amichetto”.
    La High & Middle School of Rochester disponeva di un enorme giardino fronte-retro, abbellito da cipressi ed erba tagliata al millimetro. La scuola si divideva nell’ala est, adibita ai ragazzi della Middle School, e l’ala ovest, adibita ai ragazzi della High School. Centralmente vi era l’ingresso. Il portone verde lucido si trovava al disotto di un enorme orologio marrone appeso al muro. Segnava le 7:58.
    Era una scuola prestigiosa, l’unica nel raggio di venti chilometri.

    Mi trovavo seduto su uno dei muretti che costeggiava il viale d’entrata con mia sorella, Nicole. Lei si trovava all’ultimo anno di studi dati i suoi diciotto anni. Sognava di fare la giornalista. Era una ragazza intelligente e ribelle, di quelle che volevano cambiare il mondo attraverso ideologie che avevo sentito e risentito, quali “pari diritti” o “no alle discriminazioni”. In realtà non ricordo molto quale fosse il mio pensiero a riguardo, forse i miei dodici anni allora non mi permettevano nemmeno di capire fin troppo bene cosa volessero dire quelle “cose”; fatto sta che mi sembravano “cose” giuste.

    L’orologio segnava ora le 8:00 precise. Un tintinnio iniziò a risuonare nel cortile. Fu quello stesso rumore che poco dopo si trasformò in una violenta onda d’urto derivante dalla campanella che scosse la mia dormiveglia. Al contempo venne elevata al cielo la bandiera dagli Stati Uniti d’America, che si ergeva al di sopra del grande orologio. Rimasi a guardare incredulo quel pezzo di stoffa blu, bianco e rosso che lentamente arrivava nel punto più alto dell’asta; intanto gli schiamazzi e le urla rimbombavano insieme a quel frastuono assordante.
    Improvvisamente, da dietro, sentì una mano afferrarmi la spalla.

    “Jack!” urlò per farsi sentire. Era Ted Gerald, il mio compagno di classe nonché mio migliore amico. Era un ragazzino in sovrappeso, con capelli rossi e fitte lentiggini che gli ricoprivano il viso. Su quest’ultimo si posavano due enormi lenti con contorni neri. La vittima perfetta per i bulli di Rochester.
    “Ted! Alla buon’ora. Che fine avevi fatto? Dopo il pranzo a casa tua, sei sparito tutta la settimana” esclamai.
    “Hai ragione ma sono stato costretto ad andare a trovare i miei zii a Boston, un lungo e noioso viaggio” sospirò “sempre meglio di questo posto comunque!”.
    Nonostante la sua ingenuità e quelle due mozzarelle bianche che si trovava al posto delle guance, Ted era un amico fedelissimo su cui poter far sempre affidamento; esempio lampante fu quella volta che si prese la colpa davanti ai miei genitori per la storia riguardante lo scherzo alla signora Parker, onde evitarmi un’amara punizione.

    Così quella mattina, ricordo che entrammo dopo tutta la marmaglia, quando l’orologio segnava le 8:05. Questo leggero ritardo, aimè, ci costo caro . I primi posti davanti alla temibile cattedra del professor Sheffild erano rimasti vuoti, circondati da una folla accanita che desiderava la nostra esecuzione. Il “boia” Sheffild era pronto a spremere me e a far uscire il “latte di bufala” dalla testa di Ted. Fortunatamente il primo giorno volò via senza intoppi, ma gli occhi infuocati del professor Sheffild ci avevano fatto capire che non l’avremmo scampata una seconda volta.
     
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