Capitolo XIII- Catene Spezzate

Attack on Titan- Days from a Dramatic Past

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    Capitolo XIII

    Catene Spezzate


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    Una sensazione di bruciore, di calore che si insinua nelle vene, in ogni singola cellula del tuo corpo e dà fuoco a qualsiasi cosa, perfino ai tuoi pensieri: Cos’è?
    Un formicolio incessante, una sensazione di tremore che ti attraversa tutta, dalla testa ai piedi come se il tuo stesso corpo abbia paura di qualcosa che non riesci a concepire.

    Ancora quella sensazione di calore, non ti abbandona, vorresti strapparti la pelle a morsi, staccarti i muscoli con i denti, dilaniarti da sola pur di non dover più sentire quella cosa che ti lambisce e ti stringe sempre di più.
    Quando finalmente riuscì a riaprire gli occhi fu assalita da brividi gelati: sentiva freddo, tanto freddo e oltre a ciò aveva i polsi lividi e le caviglie messe anche peggio, lo percepiva distintamente.

    Era stordita, non riusciva ancora a capacitarsi di ciò che era successo e la vista continuava ad essere sfocata, impedendole di vedere qualsiasi cosa.

    Tentò di muovere le braccia, scoprendo ben presto di essere incatenata alla parete di pietra, il ruvido ferro le aveva sfregiato i polsi mentre le caviglie erano saldamente legate al pavimento con le medesime catene. Perché?
    Sbatte più volte le palpebre, sentendo alcune lacrime amare che le rigavano il viso e finalmente riuscì a guardarsi intorno: era ancora là sotto, in quella sorta di bunker, ma più che una stanza medica quella in cui si trovava ora sembrava una camera delle torture.

    Catene attaccate alle pareti, tavoli operatori con legacci in cuoio ancora sporchi di sangue, sedie con strani strumenti per bloccare la persona seduta, impedendole qualsiasi movimento e altre diavolerie simili.
    C’erano litografie di anatomia umana appese su tutte le pareti, laddove non penzolavano le catene arrugginite, e ogni tanto spuntava anche qualcuna che rappresentava i giganti e la loro fisionomia.
    Lame, coltelli, siringhe di ogni genere e altri strumenti di dubbio utilizzo erano risposti accuratamente su un tavolo in fondo alla stanza,alcuni ancora macchiati di sangue e chissà cos’altro, mentre alcune lanterne illuminavano quasi a giorno quel luogo spettrale.

    Con la vista che andava man mano migliorando si accorse anche che era stata spogliata prima di essere “appesa” lì, aveva lividi su tutto il corpo e alcuni fori da siringa sia sul braccio destro che su quello sinistro. Che cosa era successo?

    Cominciava ad essere nervosa, i dubbi e le paure la stavano assalendo di nuovo, più insistenti che mai, mentre quella sensazione di panico cominciava a farsi sentire dalle profondità più recondite del suo animo.
    Si dimenò, con l’unico risultato di far tentennare gli anelli delle catene, suono che riecheggiò nel corridoio adiacente fino a perdersi nell’oscurità di quel luogo.

    I ricordi di quelle ultime ore cominciavano a venire a galla: vide la Monford che la trascinava a peso morto, che la denudava con nonchalance continuando a canticchiare quella canzoncina inquietante. La vide ancora mentre la appendeva al muro fissando quelle luride catene ai suoi polsi, con lei troppo stanca per reagire o anche solo parlare. E infine la vide, mentre la palpava con malizia, iniettandole uno strano liquido nelle vene. Quel bruciore, ecco da cosa era generato quel bruciore.

    “ Mio Dio, che cosa mi ha fatto?”
    Si dimenò ancora, assalita dal terrore e dalla rabbia che cresceva secondo dopo secondo, ma non aveva alcuna chance di liberarsi nelle condizioni in cui si trovava.

    < Ah, ma allora sei viva… > sentì una voce alla sua sinistra < … dopo quello che ti ha fatto iniziavo a dubitare che ti saresti risvegliata > era un uomo sulla trentina, dai capelli brizzolati e castani e dagli occhi d’un grigio spento che facevano trasparire sentimenti contrastanti. Indossava la divisa del corpo di ricognizione, non c’erano dubbi, anche se era lacera in più punti.
    < E tu chi sei? > chiese, ignorando il fatto che quell’uomo la stesse osservando proprio come mamma l’aveva fatta. Al naturale. Non c’era tempo e non era il momento di pensare a quelle frivolezze.
    < Sergente Frank O’Connor , al suo servizio > si presentò l’uomo, ironizzando per la sua posizione da incatenato. Almeno lui portava ancora i vestiti, anche se presentava alcune ferite e contusioni.
    < Io sono Isabel Ackerman. Come ha fatto a catturare anche te? > gli chiese, osservando che l’uomo era robusto e ben piazzato. Frank sembrò mordersi le labbra.
    < Quella stronza ha finto di essere una donna che si era persa e che stava scappando da alcuni giganti. I giganti c’erano, un paio di classe sei, ma lei era tutt’altro che una fuggiasca e non appena ho abbassato la guardia, mi ha tirato una mazzata con qualcosa… puttana > sembrava alterato e non poco, quel doppiogioco doveva ancora bruciargli dentro, quasi come il liquido che le aveva iniettato la Monford.

    Ironico.

    < E poi? > socializzare: quando ti ritrovi legata ad una parete, nuda, rapita da una psicopatica che sembrava gentile e che ti ha usato come cavia, non puoi fare altro che socializzare con l’ospite.
    < Mi ha trascinato a peso morto, non so nemmeno come, e i miei compagni erano troppo impegnati a far fuori i giganti per accorgersi di quello che stava succedendo, ma sono riuscito a lasciare delle tracce. E’ successo tutto due giorni fa, ma presto saranno qui e mi libereranno. Anzi, ci libereranno: non ti lascerò nelle mani di quella pazza dopo quello che ti ha fatto. Con me ha svolto solo degli esami fisici e schifezze varia, ma diamine, con te si è sbizzarrita > il suo tono di voce era terribilmente serio e a tratti perfino preoccupato, mentre i suoi timori aumentavano ascoltando le parole di quell’uomo.

    Abbassò lo sguardo per vedere i lividi sui seni e le braccia bendate dove si intravedevano più buchi da siringa di quanti non ne avessi visti prima.
    Quale mente malata poteva concepire una cosa del genere con i giganti che stavano sterminando l’umanità?
    Si guardò intorno alla ricerca dei suoi abiti e li intravide riposti con cura su un piccolo comò accanto alla porta.
    < Se solo potessi indossare i miei vestiti almeno eviterei di beccarmi un accidenti > osservò, gettando un po’ di ironia in mezzo a quella situazione tesa e senza via d’uscita, proprio come aveva fatto Frank poco prima. Sembrava funzionare.
    Anche il sergente gettò un’occhiata alla piccola pila di vestiti sul comò e impallidì di colpo:
    < Que-quella… quella è la divisa di Elisabeth! > esclamò, incredulo e con gli occhi lucidi.
    < Conoscevi il caporal maggiore Argo? > domandò Isabel, notando l’espressione di sconforto apparsa sul viso dell’uomo.
    < Se la conoscevo? Se la conoscevo?! Diamine, era mia moglie! L’ho vista morire e ora trovo la sua divisa su un fottutissimo comò in uno schifo di bunker sotterraneo! > stava sfogando la propria rabbia, ma neanche una lacrima rigò il suo volto segnato da quella guerra.
    < Mi dispiace… non lo sapevo. Alan mi ha consegnato quella divisa quando ci ha preso sotto la sua protezione > rispose, abbassando lo sguardo: mai si sarebbe aspettata di incontrare un’altra persona che aveva conosciuto Elisabeth.

    Si sentiva quasi in colpa ad indossare la sua divisa, anche se tutto ciò non aveva senso.
    < Alan? Il Tenente Callaghan? Santi cazzi! Questo significa che è ancora vivo! Cioè, è ancora vivo, vero? > quella sorta di malinconia aveva lasciato il posto ad una euforia che stonava con l’ambiente circostante.
    < Sì, o almeno lo era l’ultima volta che l’ho visto … > disse <… quattro giorni fa > aggiunse.
    < Quel vecchio testardo è il mio comandante, squadra delta, corpo di ricognizione > Isabel sgranò gli occhi.



    < Sei uno della squadra delta? Pensavo foste morti tutti > l’uomo sorriso beffardo.
    < Pensavi male, abbiamo perso alcuni dei nostri, tra cui la mia adorata Elisabeth e Donovan, uno dei migliori soldati della squadra. Noi sopravvissuti siamo stati divisi da Alan dopo l’attacco del titano notturno, sono due anni che non lo vedo… >
    < Lo abbiamo incontrato mentre fuggivamo dai giganti, ci ha salvati dal titano notturno e ci ha insegnato ad utilizzare il sistema di manovra tridimensionale >
    < Questo spiega la tua divisa, se Alan te l’ha consegnata significa che ti ritiene degna del suo rispetto e della sua attenzione. Che dire, benvenuta nei Delta! > sorrise, nonostante avesse ancora un lungo taglio che gli attraversava una parte delle labbra.
    < Gra… > il sibilò di Frank che la invitata a stare zitta la fece bloccare di colpo.
    < Quella stronza sta tornando > sentenziò.

    Infatti poco dopo Katya rientrò nella “sala delle torture” con un sorriso smagliante sulle labbra, il camice sporco e lacero in vari punti e i capelli raccolti in una crocchia dietro il capo. La guardava come se niente fosse successo:
    < Vedo che stai bene, Isabel > disse, con estrema tranquillità.
    < Che cosa diavolo mi hai fatto? Ti sei bevuta il cervello?! > le sbraitò lei contro, facendo tentennare le catene. Frank si limitò ad osservare la scena, in silenzio.
    < Oh no, mia cara, il mio cervello è al suo posto. Devi sapere che il tuo corpo è perfetto e non potevo farmelo sfuggire con noncuranza > le sfiorò uno dei seni con le dita e Isabel rabbrividì.
    < Dimmi che cosa mi hai fatto! > tentò di spingersi in avanti, sentendo il ferro che premeva contro la sua carne, ma non riuscì ad avanzare per più di due centimetri.
    < Ho fatto il mio dovere, Isabel, è un passo in avanti per l’evoluzione, un passo in avanti per l’umanità e… un passo in avanti anche per te. Ovviamente, ogni cosa a suo tempo > Isabel sputò contro la Monford, prendendola in un occhio.
    Quest’ultima rise di gusto:
    < Quanta energia, quanta energia! Ho scelto bene, davvero bene. Non preoccuparti, torno subito e finiamo l’opera > e così dicendo si incamminò, chiudendo la porta a chiave e lasciandoli di nuovo da soli.

    Frank sghignazzò.
    < Bel colpo, figliola > disse, ammiccando.
    < Pensavo fosse una mia amica, dopotutto mi ha salvato la vita… > rispose lei, chinando la testa.
    < La gente è brava ad indossare le maschere, lei a quanto pare più di chiunque altro > osservò il sergente alzando la testa al soffitto < A parte questo, ci siamo >
    < Cosa? > non appena finì di formulare quella domanda l’intera stanza tremò come scossa da un forte terremoto. Della polvere discese dal soffitto, sul quale erano apparse crepe di diverse lunghezza.
    < Che cosa è stato? > chiese Isabel confusa, nemmeno un titano poteva fare qualcosa del genere.

    < Sono i ragazzi, questo era un piccolo regalo per quella puttana della Monford o come cazzo si chiama. La polvere da sparo non ti delude mai, ragazza, mai > rispose l’uomo, tirando le catene che si erano leggermente distaccate dalla parete a causa della scossa. Isabel non disse nulla, ancora incredula.
    < Diavolo, sì! > esclamò Frank staccando entrambe le catene dal muro in pietra <queste cose son talmente arrugginite che basta potersi muovere un po’ per aprirle > e fece quel che aveva appena detto, tornando libero.
    < Ora stai ferma che ti libero > si avvicinò alla ragazza, mentre un’altra scossa faceva dondolare le lanterne e tremare qualsiasi cosa presente in quella stanza < non preoccuparti, non sei il mio tipo > aggiunse per rassicurarla, notando lo sguardo perplesso di lei. Spezzate le catene le lanciò i vestiti:
    < Avanti, indossa qualcosa, non vorrai farti vedere nuda anche dai miei compagni, vero? > Isabel arrossì lievemente e senza pensarci due volte si rivestì e finì proprio nel momento in cui la porta della stanza veniva scardinata, cadendo a terra e alzando una nuvola di polvere.

    Due figure incappucciate sgattaiolarono dentro la stanza, avvicinandosi ai due ex prigionieri. Entrambi portavano il 3D gear appeso alla vita. Uno di loro si tolse il cappuccio, mostrando dei cappelli biondi corti e un paio di occhi azzurri taglienti:
    < Diamine Frank, vieni rapito e ti ritrovo a provarci con una bella ragazza? Amico hai una certa età! > esclamò, quasi come si fossero ritrovati in un pub a chiacchierare. L’altra figura accanto a lui lo spintonò e il giovane tornò subito serio prima che il sergente potesse rispondere.
    < I Delta non abbandonano mai un proprio compagno. Siamo venuti a prenderti Frank, andiamocene da questo posto prima che ci crolli addosso > il giovane diede le spalle ai due e si incamminò, seguito dall’uomo.
    Isabel rimase un attimo ferma, quasi come se non sapesse cosa fare, ma prima che potesse decidere fu afferrata per un braccio dall’altra figura incappucciata che la trascinò via con sé mentre parte della stanza crollava dopo l’ennesima scossa.

    Due occhi azzurri la fulminarono da sotto il cappuccio.

    Due occhi azzurri e uno strano sorriso.
     
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